Nel canto si avvicendavano parole di persuasione e di minaccia, seguendo una melodia che diventava più grave o più acuta, più lenta o più veloce, a seconda dell'umore e delle risposte dello spirito. L'esecuzione passava attraveso diverse fasi emotive a seconda che cercasse di persuadere, adulare, circuire o minacciare lo spirito malvagio.
La convinzione primitiva che la «malattia» fosse provocata da uno spirito maligno, che prendeva possesso dell'individuo, dura nell'antichità, specialmente in riferimento ai disturbi mentali. Ed anche quando si comprese che la malattia era uno stato patologico dell'organismo e non una «possessione» maligna, si credette ancora che il suo attuarsi fosse dovuto ad influenze soprannaturali; la musica in questo contesto non è più un minaccioso strumento per forzare o dominare le potenze maligne, ma rimaneva uno strumento di persuasione e propiziatorio indirizzato ad una divinità, e acquistava quindi un carattere più propriamente religioso in senso moderno.
Fu la civiltà greca ad accostarsi in maniera più razionale all'elemento sonoro/musicale.
La musica fu adoperta in modo sistematico come mezzo curativo o preventivo, che poteva e doveva essere controllato poichè i suoi effetti sullo stato fisico e mentale dell'uomo potevano esser previsti.
Si supponeva allora che certi modi, cioè certe combinazioni di suoni in successione, avessero un valore etico, altri un valore emozionale. Platone riteneva che il carattere di ciascun modo producesse effetti specifici sui costumi morali; Aristotele raccomandava l'impiego del modo dorico che infondeva coraggio o di quello lidico adatto ai bambini piccoli.
Anche gli strumenti svolgevano delle funzioni specifiche; il flauto ad esempio era uno strumento ritenuto in grado di destare le passioni e per questo Aristotele affermava che doveva essere usato solo quando l'oggetto della musica era la purificazione delle emozioni e non lo sviluppo della mente. Nell'epoca Romana l'approccio all'elemento musicale come strumento di guarigione conserva, in alcuni casi, i fondamenti razionali tramandati dalla cultura greca.
Nel medioevo invece la musica fu di nuovo usata nei trattamenti magici o nelle pratiche religiose. La malattia e la sofferenza venivano accettate come volontà divine e sublimate attraverso qualche mezzo mistico o spirituale, come la musica, largamente usata nell'ambito della chiesa.
D'altra parte permanevano ampie zone in cui la malattia era vista ancora con possessione (vedi il tarantolismo tramandatosi fino ai nostri giorni), ed in cui la musica riacquistava connotati magici.
Bisogna arrivare al rinascimento per trovare nello studio e nella pratica della musica come elemento terapeutico una impostazione di nuovo più razionale e scientifica.
Dal 1500 in poi infatti furono numerosi gli uomini di medicina interessati a quest'arte; alcuni vedevano in lei esclusivamente uno strumento di conforto e di evasione, altri invece approfondirono le modificazioni fisiologiche indotte dalla musica, studiarono gli effetti sulla pressione sanguigna, suI respiro, sulla digestione, scoprirono relazioni tra i ritmi corporei e quelli musicali. Da allora fino al XX Secolo esistono numerose testimonianze riguardo l'uso dell' «arte musicale» come strumento terapeutico.
Il termine musicoterapia però, è stato coniato e utilizzato soltanto a partire dagli anni '50. Negli Stati Uniti i risultati positivi ottenuti con I'introduzione di musicisti nell'ambito degli Ospedali per veterani di guerra attirarono l'attenzione di molti medici; si comprese la necessità di una formazione specifica per far del musicista un terapeuta. Nel '50 un gruppo di professionisti fondo I' «Associazione Nazionale per la terapia musicale». Tale associazione pubblica una rivista, organizza tutti gli anni un Congresso, ed assicura la formazione dei musicoterapisti. Il corso di formazione è della durata di quattro anni, e rilascia un diploma parauniversitario.
Attualmente esistono in diversi Paesi associazioni di musicoterapisti in particolare:
- in Gran Bretagna la «British Society for Music Therapy».
- in Francia «L' Association de recherches et d'applications del Techniques psichomusicales».
- in Spagna «L' Asociacion espanola de musicoterapia»
- in Italia «L' Associazione italiana per lo studio della MT»
- in Argentina «L' Associazione argentina di MT».
- in Germania «La Societa di MT della Germania Federale».
- in Austria esiste a Vienna un corso di formazione presso l’Istituto di Scuola Superiore per musica ed arti figurative.
G. Manarolo
Medico, specializzando in Psichiatria
Cosa vuol dire "musicoterapia":
Alcune precisazioni sul termine
Per comprendere quali sono gli elementi che qualficano questo settore di intervento riabilittivo e psicoterapico è necessario precisare il senso che i termini «musica» e «terapia» acquistano in questo particolare contesto.
In ambito musicoterapico per «musica» si intende un insieme di materiali sonoro/musicale che esorbitano di molto da ciò che di norma è considerato come «arte musicale», vale a dire:
1)suoni-rumori quotidiani, corporei, vocali non organizzati
2)suoni-rumori quotidiani, corporei, vocali organizzati.
3)infrasuoni, ultrasuoni
4)musica intesa in senso comune.
Non si fa riferimento nella sceIta del materiale sonoro/musicale a presupposti artistici/culturali (uso ciò che piace, ciò che riconosco come musica), ma a presupposti di intervento, di operatività, (impiego ciò che può avere un senso, un significato nella relazione, nel progetto riabilitativo).
Si utilizza quindi qualsiasi evento sonoro/musicale percepibile e non dall'apparato uditivo, senza una gerarchia di valori.
Volendo precisare il secondo termine, cioè «la terapia», potremmo definirla come «un fare», «un agire» metodologicamente precisato che abbia per obiettivo una evoluzione, un miglioramento del soggetto e che sia attuato con il consenso delI'interessato.
L'elemento sonoro-musicale può acquistare connotati terapeutici in due settori operativi:
1)Psicoterapico dove l'elemento sonoro/musicale dviene un anasle di comunicazione non verbale che può favorire l'instaurarsi di particolari forme di relazione interpersonale.
2)Riabilitativo dove l'elemento sonoro/musicale diviene la motivazione ad attuare una certa funzione (motoria, vocale, ecc.) e costituisce il modello formale al cui interno questa funzione si articola.
Presupposti scientifici della musico terapia
L'elemento sonoro/musicale racchiude una serie di potenzialità che gli permettono di interagire in maniera profonda con l'essere umano. Al fine di chiarire quali sono i presupposti che stanno alIa base del rapporto uomo-suono possiamo ricordare alcune considerazioni scientifiche:
1)Studi di fisiologia umana hanno accertato che esiste una correlazione tra ascolto musicale, emozioni suscitate e modificazioni neurovegetative 8cioè variazioni del ritmo cardiaco, della frequenza respiratorias, della pressione circolatoria); si è inoltre precisato come il tipo di risposta ottenuta sia legata a due variabili:
A) una sorta di predisposizione del soggetto a somatizzare con un apparato, un organo piuttosto che con l'altro.
B) una sorta di organotropismo dei brani musicali proposti alI'ascolto che presentano la peculiarità di influenzare un organo piuttosto che un altro.
2)Studi di tipo neurologico hanno accertato che la stimolazione sonoro/musicale rappresenta per l'encefalo u messaggio complesso e non è stato ancora possibile dimostrare una precisa laterizzazione misferica. La musica è un linguaggio che sembra coinvolgere sia l'emisfero sin. (che generalizzando si ritiene più deputato ad operazioni di tipo logico), che quello di dx: (che generalizzando si ritiene più legato ad operazioni di tipo creativo), ed èquindi in grado di attivare globalmente l'encefalo. 3) La psicoanalisi riconosce nella produzione musicale e nella sua funzione il tentativo di recuperare una sensazione di benessere universale quale si aveva nel periodo di vita intrauterina, il desiderio di dimenticare la lacerazione primordiale della nascita e di recuperare l'unione, la fusione con la madre. Rappresenta quindi per il soggetto una esperienza regressiva a fasi narcisistiche, ma anche l'inizio di un rapporto con l'esterno, con un altro da sè, e come tale favorisce la relazione, la comunicazione.
Musicoterapia e psicoterapia
La musicoterapia applicata alla psicologia clinica: un’opportunità in più per la comunicazione all’interno di un setting psicoterapico.
La musicoterapia, scienza giovane soprattutto in Italia, è aperta a molteplici concezioni e finalità per cui vorrei specificare che la tecnica musicoterapeutica a cui si fa riferimento nel presente articolo, è la musicoterapia intesa come particolare tipo di terapia della comunicazione che si distingue dalle altre tecniche non verbali (arteterapia, danzoterapia, psicomotricita, ecc.) per il fatto che privilegia il canale uditivo - senza escludere gli altri - utilizzando come strumento facilitatore l'organizzazione sonora.
Usare la tecnica musicoterapeutica in quest'ottica, vuol dire «conversare» all'interno del mondo dei suoni piuttosto che all'interno del mondo della parola. E la musica, come qualsiasi suono prodotto percuotendo il nostro corpo, si può improvvisare senza essere musicisti, esprimendola tramite la propria tecnica e competenza espressiva, nel qui e ora, mantenendosi in contatto con le proprie emozioni, traducendole direttamente in suono o in musica, al di là di ogni mediazione di tempo, spazio e scrittura.
Entrando nell'ambito più specifico della Psicologia Clinica, personalmente mi sono avvicinata a questo tipo di musicoterapia in quanto volevo in via sperimentale unire alIa terapia rogersiana (approccio prevalentemente verbale) la tecnica terapeutica non-verbale dell'organizzazione sonora. Mi sono chiesta che cosa la musica e il suono potevano offrire per esplorare sia canali nuovi di comunicazione, sia contesti nuovi di apprendimento per rompere quei circuiti ripetitivi che possono presentarsi sotto forme di stati depressivi, fobici, ossessivi o di problematiche comunicazionali.
Partendo dal ricco materiale di lavoro con bambini gravemente handicappati (Scardovelli '86), ho potuto osservare come questa tecnica musicoterapeutica e il suo uso, presuppongono alla base un affinamento delle capacità di ascolto, di decodifica e di composizione-improvvisazione di messaggi sonoro-musicali che intercorrono tra le due persone costituenti la diade emittente-ascoltatore.
All'interno di questi dialoghi che possiamo definire «dialoghi sonori» - egualmente funzionali sotto il profilo comunicazionale quanto i dialoghi verbali - ho potuto individuare alcuni precisi aspetti:
1)Livello di energia globale impiegata durante l'uso di strumenti musicali o l'uso tonico del corpo o l'uso della propria voce
2)Il tipo di crescendi o diminuendi regolari o irregolari
3)Il «tempo-ritmo» e le figurazioni ritmiche
4)l carattere di fluidità-rigidità nell'attività motoria o nella produzione sonora.
5)Il livello di organizzazione del comportamento globale. Alla base di questo tipo di comunicazione viene quindi privilegiato il canale uditivo, ma come accennato prima, non vengono esclusi gli altri canali in quanto il ritmo funge da ponte fra gli schemi sonori e gli schemi percettivo-motori; mentre gli schemi ritmici interiorizzati costituiscono lo scheletro degli schemi di espressione-ricezione delle emozioni. (Scardovelli 86)
Questa modalità comunicazionale che si basa sull'ascolto, ma contemporaneamente va al di là del canale uditivo è, a mio avviso, idonea e adatta ad essere applicata nella tecnica psicoterapeutica del colloquio rogersiano, dove l'ascolto è attuato come «ascolto partecipativo» (non identificativo) della sfera profonda del sè, non solo sfruttando la comunicazione verbale, ma allargando I'ascolto, ponendo cioè corretta attenzione a ciò che la persona comunica anche con la propria modalita non verbale (i silenzi, il ritmo del rspiro, la postura, il tono muscolare, ecc.) (Vangi 86).
A questo punto mi sono chiesta perchè non potenziare anche la possibilità di ascolto della espressione non-verbale tramite una precisa tecnica che usa il canale uditivo e nel contempo lo trascende? Insomma, stavo cercando una opportunità in più per una comunicazione all'interno di un setting psicoterapico. Infatti l'occasione si è presentata quando mi è stata inviata una cliente di vent'anni che desiderava «lavorare» all'interno del setting anche sulle proprie modalita non-verbali: dopo un periodo di colloqui rogersiani, che le avevano consentito di prendere coscienza e contatto con le proprie emozioni piu profonde, le ho proposto una esperienza di «dialogo sonoro».
Da quell'incontro in poi, nella stanza dove avvenivano solitamente i colloqui e le sedute con questa cliente, avevo disseminato sulla moquette vari strumenti musicali a fiato e percussione (flauto, triangolo, marakas, xilofono, tamburello, bonghi, ecc.) i quali, poco alla volta, entrarono a far parte dell'ambiente fisico e piscologico.
In breve tempo l'attenzione della cliente si era soffermata su di essi: abbandonata l'usuale posizione (testa e sguardo abbassati, corpo ripiegato su se stesso, prevalente contatto con le emozioni negative) aveva iniziato a esplorare l' ambiente attorno a sè con sguardo curioso. Era il momento giusto. Invitata a scegliere uno strumento, prese lo xilofono, ed io il tamburello: eravamo pronte per «dialogare» attraverso il suono.
In silenzio avevamo preso entrambe posto sulla moquette sedendoci una di fronte all'altra, con in mano i rispettivi strumenti, mentre la luce della lampada alogena era stata preventivamente affievolita per creare una atmosfera di maggiore concentrazione.
La cliente si era posta in grembo lo xilofono e, dopo una breve pausa, aveva iniziato a suonare ripetutamente lo strumento con temporitmo costante, rimanendo nella stessa gamma di intensità sonora; io, a mia volta, ascoltato il messaggio sonoro, ho iniziato a percuotere con una mano il tamburello rispettando lo stesso ritmo-intensità proposto dalla cliente, mentre cercavo di rispecchiare empaticamente la posizione del suo corpo, il ritmo del suo respiro, il livello di energia globale da lei impiegata.
Dopo alcuni minuti di questo "dialogo" la cliente, che prima guardava l'azione della sua mano sullo xilofono, ha chiuso gli occhi come per sentire dentro di se quell'azione, quei suoni che molto probabilmente per lei, in quel momento, risultavano significativi.
A questo punto ho fermato la mia mano sul tamburello, ho lasciato trascorrere una piccola pausa e, mantenendo costanti ritmointensita, ho iniziato a graffiarlo con la punta delle dita, facendole ritmicamente scivolare una dopo l'altra. La cliente, sempre ad occhi chiusi, ha posato molto lentamente il suo xilofono e ha mosso le mani in direzione del mio strumento musicale e forse anche di quel suono che da esso, in quel preciso momento, si stava propagando. Trovato con il tatto il tamburello, vi si è avvicinata e, graffiandolo anche lei con la punta delle dita, ha riproposto lo stesso suono da me poco prima prodotto. Sono passati così alcuni minuti nei quali si stava realizzando un vero e proprio "dialogo sonoro": entrambe eravamo entrate nel filo di una comunicazione non-verbale, dove il suono sostituiva la parola nella sua espressione di pensiero e di emozioni.
Quando la cliente ha aperto lentamente gli occhi e, guardandomi, ha accennato un sorriso, abbiamo iniziato a verbalizzare la nostra esperienza. Cos'era successo?
Il "dialogo sonoro" aveva "facilitato" questa cliente ad entrare da sola in contatto con una sua precisa emozione, offrendole la subitanea possibilità di riconoscerla: nel suo profondo quadro di riferimento interno aveva collegato l'emozione di quel particolare suono da lei prodotto graffiando il tamburello, con la consapevolezza della sua potenzialità latente di saper donare affetto che solo ora lei, scopriva possedere; affetto di cui prima era tanto abile nell'esigerlo, quanto incapace nell' offrirlo.
Quale opportunità in più per la comunicazione all'interno di un setting psicoterapico poteva e può quindi stimolare la musicoterapia?
Questa mia esperienza, ed altre che ne sono seguite, mi hanno convinta di come la comunicazione, all'interno del mondo dei suoni, può risultare particolarmente immediata e istintiva, agevolando talvolta la produzione di insight.
Al di là della parola esiste dunque l'universo sonoro, universo arcaico per ogni persona, geneticamente legato al mondo fetale dove il canale uditivo si sviluppa con precedenza assoluta sugli altri, permettendo la formazione di schemi di assimilazione delle sonorità più ricorrenti all'interno e all'esterno del grembo materno. (Verny 1981). Ognuno di noi, fin dalla nascita, possiede quindi una storia personale nel mondo dei suoni che può diventare oggi, l'opportunità in più per una ricca fonte di autoconoscenza.
Elena Negri (psicoterapeuta facilitatrice rogersiana).
Musicoterapia per I'handicappato
Musicoterapia con un grave insufficente mentale: un intervento sul contesto delle sedute
Da circa otto anni stiamo conducendo interventi di Musicoterapia in un Centro ospitante bambini dai 6 ai 14 anni plurihandicappati gravi.
Disponiamo di una stanza appositamente attrezzata con tappeto, strumentario musicale (tipo Orff), impianto di registrazione e ascolto, e di una apparecchiatura di videoregistrazione.
In genere conduciamo sedute individuali (un operatore con il singolo bambino alla presenza di un insegnante nel ruolo di osservatore) .
Recentemente abbiamo modificato il nostro modo di lavorare, privilegiando l'intervento sul contesto: ciò significa per noi non agire direttamente con il bambino, bensì sull'ambiente intorno a lui, sul suo spazio di vita di cui anche noi facciamo parte.
Parliamo al plurale in quanto per un certo periodo e in un caso specifico, con una bambina che chiameremo Lucia, abbiamo deciso di lavorare in tre operatori, tutti insieme alla presenza dell'insegnante.
Lucia è una bambina di dodici anni, colpita da tetraparesi spastica e chiusa nei confronti del mondo esterno; spesso rifiuta il contatto con le altre persone, talvolta anche in modo violento, urlando e piangendo.
Negli ultimi anni queste manifestazioni si sono alquanto attenuate grazie all'attività psicomotoria giornalmente condotta dalla sua insegnante, e in parte alle sedute di Musicoterapia.
Le sue crisi violente, i suoi pianti disperati che perduravano anche una intera mattinata, si sono fatti alquanto più rari e meno intensi; abbiamo pertanto ritenuto di inserirla in una attività di gruppo, al fine di ampliare l'ambito delle sue esperienze e di attenuare il legame di tipo simbiotico che manteneva con la sua insegnante.
Le sedute si svolgevano alternando momenti di ascolto di musica e momenti di pausa. Durante l'ascolto, ognuno di noi era libero di muoversi nello spazio, utilizzare oggetti e strumenti musicali, entrare in rapporto con gli altri, con l'unica consegna di mantenere il contatto con le proprie sensazioni ed emozioni (experiencing), indotte dall'ascolto della musica e dalla situazione che si stava vivendo in quel momento.
Di volta in volta c'era chi ascoltava ad occhi chiusi, chi danzava e "disegnava" i suoni nello spazio, chi giocava con foulards o esplorava la sonorità di alcuni oggetti, in qualche modo imparentandola, attraverso il ritmo o la dinamica energetica, con il brano musicale.
Lucia stava in mezzo a noi, su una seggiolina a rotelle, con la quale riusciva a spostarsi per la stanza. In genere ci osservava durante le nostre azioni, spesso sorrideva, qualche volta usava la voce, una voce distesa, divertita, non più la voce del rifiuto e della disperazione; poi si avvicinava spontaneamente a qualcuno di noi, come per osservare meglio, partecipare in qualche modo all'attività in corso, allungava le mani per toccare, prendere, accostare a se.
Durante le pause, nell'improvviso silenzio, ancora una volta eravamo liberi di fare quello che ci veniva in mente; noi ci eravamo posti nessun obiettivo preciso se non quello di stare insieme condividendo lo spazio comune, assecondando la motricità spontanea, la curiosità, il piacere di toccare, esplorare, giocare. In un certo senso si tornava bambini, bambini molto piccoli ed era perciò del tutto naturale comportarsi appunto come bambini: i suoni, i gesti, le azioni prodotte, non erano più quelle solite, usuali, codificate, etichettate, di un gruppo di adulti, bensì erano insolite, curiose, bizzarre, apparentemente prive di finalità che non fosse appunto quella di soddisfare un desiderio immediato, una fantasia, un'idea di gioco. Si giocava, talvolta assieme, e Lucia con noi.
Lei si integrava benissimo e si divertiva in quanto le sue azioni, i suoi gesti, la sua voce spesso erano molto simili ai nostri: ci si rispecchiava a vicenda, si dialogava così, come accadeva sul momento, senza pensare, senza ragionare.
La musica aveva creato un clima emotivo comune; tutti avevamo ascoltato la musica, ciascuno a suo modo. E la musica aveva un tempo ritmo, una tonalità affettiva che ognuno si portava dentro anche durante le fasi di silenzio.
Questo ci aiutava a sintonizzarci, ad accordare le nostre azioni, i nostri gesti, le nostre proposte sonore: Lucia diventava uno di noi; non c'era più differenza con Andrea, Bruna, Mauro e Valeria. Ci si divertiva insieme, si stava insieme, si giocava insieme.
Terminata la seduta, dedicavamo un certo tempo alla stesura dei protocolli di osservazione e all'analisi degli stessi.
Talvolta Lucia rimaneva con noi, che eravamo tornati adulti, e parlavamo e ragionavamo da adulti, quasi dimenticandoci di lei che era rimasta bambina e pazientemente, serenamente, aspettava avessimo finito.
Commento
Le sedute consentivano lo svolgersi di una attività libera, non precostituita, all'interno però di un progetto, di una macrostruttura ben definita: alternanza di fasi di ascolto e di pausa, in cui il brano di inizio e di fine era il medesimo (in genere utilizzavamo musiche di Mozart o di Vivaldi o musiche folkloristiche che, sulla base delle precedenti esperienze, sembravano "gradite" alla bambina).
L'assenza di un compito predeterminato lasciava a ciascuno lo spazio di esprimersi liberamente, di agire in base al desiderio del momento in un clima di accettazione reciproca e non giudizio.
Libertà quindi all'interno di un ordine garantito dal contesto.
In tal modo veniva a cessare del tutto, o si riduceva di molto, il dialogo interiore che nell'adulto spesso interferisce con commenti, osservazioni, valutazioni, giudizi e costituisce quindi una sorta di schermo nei confronti del reale e di ostacolo ad una partecipazione più immediata e diretta. Il pensiero fluisce insieme all'azione e non la precede, mentre si diventa spettatori di se stessi.
In altri termini ancora, si verifica un riorientamento dei nostri filtri percettivi: si riduce lo spazio mentale occupato dalle rappresentazioni interne ed aumenta la disponibilità a ricevere gli imput esterni.
Si diventa più sensibili, quindi I'esperienza diventa più ricca anche emotivamente. Ci avviciniamo di più alle modalità di percezione infantile, ai modi di ragionare e di agire del bambino, quindi anche di comunicare.
Ritorniamo di nuovo capaci di giocare, non come adulti, ma come bambini che giocano.
E in mezzo a noi c'era Lucia, ed era una di noi, faceva parte del gruppo. Le sue proposte (gesti, suoni, movimenti), come quelle di tutti, erano accettate, considerate, talvolta condivise, talvolta ignorate.
Ciò che si condivideva non era la singola azione, ma il progetto, il contesto dell'azione che, quello si, diventava comune, creando un sentimento chiaramente avvertibile, difficile a definire, di insiemità.
Naturalmente noi rimanevamo le stesse persone: anche se si modificava lo stato di coscienza, disponevamo comunque della nostra esperienza di Musicoterapia che ci ha abituato all'ascolto dell'altro, a calibrarci sugli aspetti temporali ed energetici dei suoi comportamenti-comunicazione e a rispondervi in modo sintonico.
Tutto questo ci aiutava, spontaneamente, ad avviare e mantenere tra noi tutti, Lucia compresa, una sinfonia audio-visivo-cinetica a più voci, molto ricca e articolata, con alternanza di isole di ordine e di disordine, di attività e di pausa, di integrazione, dispersione, all'interno di un contesto generale, di un contenitore, che ne garantiva il significato relazionale.
Attualmente l'insegnante continua da sola questa attivita, integrado la sua esperienza psicomotoria con la pratica musicoterapeutica acquisita sullavoro svolto insieme. Lucia non è più ricaduta nelle sue crisi di sconforto e disperazione. Seduta tranquillamente sulla sua seggiolina, accetta il contatto corporeo dell'insegnante, non sfugge come prima lo sguardo, si orienta verso i suoni e gli oggetti dell'ambiente, esprime la sua curiosità con la voce, gli occhi, il sorriso.
Valeria Lo Nano
Andrea Masotti
Mauro Scardovelli
(Musicoterapeuti)
Facciamo insieme musicoterapia
"la musicoterapia come elemento facilitatorio all’interno di un gruppo d’incontro"
Quest'articolo è uno dei primi frutti di una ricerca stimolante e creativa nata all'interno del nostro gruppo genovese formato prevalentemente da musicisti-ricercatori, interessati al rapporto suono-essere umano.
Da tale esperienza ho potuto capire e verificare - anche sotto il profilo della Psicologia Clinica - che "lavorare" con questi musicisti, non significava soltanto entrare in contatto con la musica tramite il canale uditivo, ma significava soprattutto intendere la musica come produzione sonora che può essere creata e non solo ascoltata, proprio da chi musicista non è, al di là quindi di ogni competenza musicale.
In quest'ottica la musica può diventare un valido mezzo di aiuto psicoterapico all'interno della comunicazione, in particolare in quei casi in cui la parola non è ancora in grado o non è più in grado da sola di garantire un sufficiente rendimento comunicazionale (ad es. nel contesto relazione con bambini gravemente handicappati) e può essere anche vissuta come produzione e ascolto dell'universo sonoro collegata alle dinamiche emotive, corporee e relazionali di ciascuno di noi. Questo vuol dire allargare la gamma dei mezzi espressivi sviluppando la potenzialità dell' «ascolto» nei confronti di tutti quei segnali che provengono dall'altro: la mimica facciale, la postura, i gesti, gli sguardi il ritmo del respiro ecc. per accedere ad una capacità relazionale e ad una visione del mondo maggiormente flessibili, più ricche ed articolate, funzionali quindi alla rottura di possibili circuiti ripetitivi.
In tal senso avvalersi della musicoterapia così intesa, vuol dire recuperare tutte quelle modalità espressive, emotive e di ascolto cui spesso rinunciamo per mantenerci all'interno di rigidi, definiti modelli comunicazionali .
Letta in questi termini la musicoterapia diventa «Iinguaggio» piu arcaico; ed e in quest'ottica che - a mio avviso - può essere considerata una disciplina umanistica, in quanto si sforza di favorire lo sviluppo dell'uomo inteso come «entità globale» in cui gesti, movimenti, emozioni, pensieri e immagini sono considerate all'interno di una visione olistica e secondo una prospettiva empirica e fenomenologica.
Quanto detto è stato personalmente sperimentato e verificato all'interno di gruppi di incontro continuativi, in cui ho rivestito il ruolo di facilitatore. Anche il lavoro di questo gruppo (come quello dei nostri gruppi di formazione e apprendimento della musicoterapia ed i gruppi psicoterapici) si era svolto in una situazione confortevole sia dal punto di vista ambientale (locale sufficientemente ampio e acusticamente isolato, adeguatamente illuminato, dotato di moquette, di impianto stereo HI-FI per l'ascolto di musica, vari strumenti musicali); sia dal punto di vista psicologico, tipicamente rogersiano, contrassegnato cioè da un clima di accettazione, fiducia, calore e rispetto reciproco dei sentimenti di ciascun partecipante, soprattutto di quelli «negativi» che costituiscono spesso esperienza nuova e inattesa di fronte alla quale la persona appare veramente sorpresa essendo abituata ad essere accettata solo quando si esprime in termini di gentilezza, disponibilità e apertura.
AII'interno di questo gruppo era stato dedicato ampio spazio (oltre alla verbalizzazione delle emozioni ed alle espressioni psicocorporee per chi voleva comunicare con esse) al lavoro a coppie sui «dialogo sonoro» e sui «dialogo vocale» dove l'unica consegna era quella di assumere I'uno il ruolo di «ascoltatore», I' altro il ruolo di «ascoltato» senza far ricorso all'uso della parola.
Durante il «dialogo sonoro» è stata offerta la possibilità di usare strumenti musicali di piccole dimensioni, tali da consentire una produzione svariata di timbri, intensita, tonalita, ritmi (tamburelli, marakas, triangoli, xilofoni, flauti, piatti, bonghi, ecc.), ma anche qualunque "cosa" che fosse in grado di produrre suono: usando oggetti (es.: battendoli ritmicamente suI tavolo), sfruttando il proprio corpo (es.: strofinando le mani) emettendo la propria voce, anche se poco intonata (Negri - Vangi '86).
Il lavoro con gli strumenti si è dimostrato - a mio avviso come uno dei più efficaci mezzi per evidenziare la capacità di ascolto, osservazione di se stessi e dell'altro e, in particolare, la capacità di «sintonizzarsi» con l'altro. E’ stato sorprendente per me notare come durante uno di questi «dialoghi sonori», le difficoltà che sorgevano non erano originate da incompetenza musicale (come si potrebbe pensare), ma da ciò che ogni partecipante metteva di estremamente personale all'interno di quel tipo di dialogo (gioia, paura, rabbia, ecc.).
Ad esempio un ragazzo di 18 anni che partecipava per la decima volta ad un gruppo di incontro (all'interno del quale si era presentata la necessità di verificare il rapporto di comunicazione con la madre, che a tal fine, era stata invitata ad intervenire), accolse in quella occasione la mia proposta del «dialogo sonoro» scegliendo come strumento il triangolo, mentre la madre aveva privilegiato il tamburello.
Durante il «dialogo» ho potuto osservare dei nuovi patterns comunicativi non evidenziati durante la precedente interazione verbale. In altri termini, tolte le maschere consentite dall' aspetto contenutistico della comunicazione verbale, gli aspetti non verbali di interazione madre-figlio, erano emersi con estrema chiarezza: mentre il ragazzo produceva con il triangolo un suo no costante nel tempo-ritmo lento, con ristretta forma di variazioni energetiche, la madre percuoteva il tamburello con un ritmo più veloce e una intensità maggiore. Inoltre, mentre il ragazzo era concentrato suI suo strumento guardandolo ininterrottamente, la madre cercava con lo sguardo, gli occhi del figlio.
Dopo il «dialogo sonoro» seguì la verbalizzazione di quanto successo, ogni componente del gruppo espresse il proprio vissuto e il singolo responso sull' «ascolto» intercorso durante la comunicazione madre-figlio: ognuno dei partecipanti si chiese principalmente quale fosse stata la «qualità» di quell'ascolto, quanto e in che modo la postura del corpo e il suo linguaggio avevano offerto opportunità di risposta non-verbale al messaggio sonoro, e se la comunicazione di entrambi fosse stata veramente «pulita» .
Dai feedback del gruppo emerse che durante quella produzione sonora, la madre si era espressa in modo più ricco e con un temporitmo piu veloce rispetto alIa produzione sonora del figlio nei cui confronti la comunicazione risultava essere così più confusa, in quanto egli si era espresso con un tempo ritmo lento, privo di variazioni tonali e configurazioni ritmiche.
Successivamente anche la madre stessa prese maggiore consapevolezza di questo fatto e, facendo riferimento alIa propria vita familiare, riconobbe di essere tanto esigente nei confronti del figlio quanto poco disponibile nell'ascoltarlo. Dopo quella esperienza di «dialogo sonoro», all'interno del gruppo le possibilità di comunicazione con quel ragazzo si ampliarono e gli stessi componenti vollero sperimentarla vicendevolmente scoprendo una possibilità in più per facilitare la comunicazione.
Il «dialogo sonoro» può essere effettuato da tutto il gruppo contemporaneamente, mantenendo le stesse modalità, ma assumendo le caratteristiche dell'improvvisazione musicale, dove la libera creatività personale si fonde nell'ascolto comunicazione della produzione sonora dell'altro.
Questa esperienza mi ha dimostrato che durante il lavoro nel gruppo e, indipendentemente dalla competenza musicale dei partecipanti, vi è una oscillazione in senso sonoro tra il caos e l'ordine, cioè a momenti di progettualità divergenti (differenti gradi di intensità, diversità di tempo-ritmo, di livello energetico, ecc.) fanno seguito momento di progettualità comuni. lnoltre ho potuto constatare quanto sia difficile per molte persone «stare dentro» ai momenti di caos e di disordine musicale: questa capacità presuppone grandi doti di accettazione, di ascolto e di tolleranza nel gruppo.
Oltre al lavoro col «dialogo sonoro» anche con l'uso della voce emessa a coppie o da tutto il gruppo, si può ottenere una improvvisazione vocale di cori o canti, dove l'ascolto e la comunicazione si realizzano qui nella capacità di sintonizzarsi con l'altro.
Durante un lavoro di gruppo, un partecipante ha definito questa condizione come: «Il ritmo primordiale ad una espressione tribale», esprimendo molto bene ciò che può esser definito come l'ascolto di una emozione collettiva (VangiNegri '86).
Anche la possibilità di sfruttare la voce come «strumento» comunicazionale, può fare riflettere suI fatto che molto spesso si usa solo come tramite di comunicazione verbale. Ma al di là della parola c'e il suono: il tono della voce, la sua vibrazione, l'intensità con cui parliamo, il ritmo, la respirazione, tradiscono quell'aspetto non verbale che si trova anch'esso ai confini della sfera emotiva.
Claudio Vangi (Psicologo - Psicoterapeuta faciliatore rogersiano)
Musicoterapia e comunicazione:
Teoria, pratica clinica, formazione
1) La comunicazione produttiva secondo il punto di vista musicoterapico.
La comunicazione autentica presuppone comprensione, presenza, risonanza da parte di un altro essere umano. Essa costituisce la fonte primaria della sensazione di sicurezza derivante dalla conferma del Se. (1) Comunicare significa esistere come persone nel mondo, cioè in uno spazio fisico e mentale condiviso con altre persone. La comunicazione presuppone pertanto un certo grado di isomorfismo o corrispondenza tra le mappe mentali, premesse epistemologiche o visioni del mondo dei partecipanti. (2)
E tale corrispondenza, a sua volta, circolarmente, nasce, si produce e si mantiene grazie al processo del comunicare-condividere-partecipare. Al contrario, es. l'isolamento, la chiusura autistica, la frammentazione del Se, accompagnate da sofferenza, sensazione di perdita, depressione, autodistruzione, a differenti livelli si accompagnano ad un disturbo temporaneo o durevole nel processo di comunicazione.
Già alIa nascita il bambino appare dotato di una serie di predisposizioni biologiche che facilitano l'interazione con la madre (3). Si tratta di comportamenti-segnali, dapprima casuali, che acquistano significato relazionale grazie alIa funzione organizzatrice svolta dalla madre stessa e dai familiari. (4) E ancor prima, durante la gestazione, il feto da prova, attraverso la sua motricità, di reagire agli stimoli dell'ambiente esterno (luci, suoni, rumori) e alle emozioni della madre che egli può percepire attraverso le variazioni nella respirazione, nel ritmo cardiaco, nel ritmo e nel tono di voce, nella biochimica del sangue. (5) In particolare è comprovato che i bimbi alIa nascita siano in grado di riconoscere, tra tante, la voce della propria madre e di reagire selettivamente di fronte a determinati stimoli sonori che hanno ripetutamente udito durante la gestazione. (6) Nell'essere umano, quindi, il processo che conduce ad un certo grado di isomorfismo con le mappe mentali dei consimili è particolarmente lungo e delicato e attraversa tutta una serie di stadi o livelli di complessità crescente, in cui il livello finale (la competenza adulta) è indissolubilmente imbricato con i precedenti.
La Musicoterapia, nella concezione da noi condivisa, è una etichetta, forse un po' troppo generica e talvolta fuorviante. Ad una prima approssimazione possiamo dire che essa può definirsi come una pratica clinica o riabilitativa focalizzata su taluni aspetti specifici della comunicazione non verbale, cioè gli aspetti ritmici, temporali, energetici. (7) Tali aspetti rivestono una importanza determinante sull'andamento degli scambi e della relazione madre-bambino sin dai primi giorni di vita (8) e suI processo di espressione-ricezione
delle emozioni (9). Il punto di vista musicoterapeutico in sostanza, si evidenzia ed acquista una sua specificità proprio nella rilevanza che esso attribuisce alIa distribuzione e concatenazione temporale degli eventi -comportamenti -comunicazioni (motori, sonori, visivi, gestuali, posturali ecc.) e alIa dinamica energetica degli stessi (forza, intensità, aumento, diminuzione, variazione, ecc.). E’ quindi utilmente applicabile, in genere associato e coordinato ad altri punti di vista e pratiche terapeutico-riabilitative, in tutti quei casi (e sono parecchi), in cui il disturbo della comunicazione (e la conseguente sofferenza relazionale o intrapsichica) si evidenzia anche o primariamente in una distonia, disarmonia, disarticolazione sull'aspetto temporale-ritmico-energetico degli scambi.
Quando due persone comunicano intensamente e felicemente, i loro corpi sono impegnati in una sorta di sinfonia audiovisivo-cinetica, in cui la ritmicità, la rispondenza, l'ordine, l'organizzazione prevalgono sulle fluttuazioni casuali, sulle turbolenze, suI disordine. In un certo senso, il carattere organizzato degli scambi può far pensare alIa relazione, alIa diade o al gruppo come ad una entità superindividuale, caratterizzata da particolari qualità emergenti, non possedute in sè dai singoli partecipanti. I gesti dell' uno vengono ripresi da quelli dell'altro, c'è rispecchiamento nella postura, nel tono, nel tempo ritmo, c'è empatia, frutto di ascolto e calibrazione reciproca (attenzione ai segnali dell' altro), c'è produzione di novità nella concatenazione degli scambi, ovverosia assenza di stereotipie e ripetizione ossessiva; in sintesi c'è la condivisione di un progetto espressivo (suI versante esterno) ed autoesplorativo (suI versante interno). La loro comunicazione può utilizzare, come mezzi espressivi la voce o il movimento, il linguaggio verbale o gli strumenti musicali: dal punto di vista musicoterapeutico sarà sempre possibile condurre un'analisi in termini di concatenazione temporale dei comportamenticomunicazione e della loro dinamica energetica, al fine di comprendere la qualità relazione ed emotiva del progetto espressivo condiviso. Fin qui, ascoltare, osservare per comprendere.
Ascoltiamo un brano musicale per capire come è fatto e/o per emozionarci insieme ad esso. Osserviamo due persone che interagiscono per cercare di capire che cosa succede tra loro.
La pratica musicoterapeutica inizia quando ci coinvolgiamo come attori in un processo di comunicazione e cerchiamo, attraverso l'ascolto e la calibrazione dell'altro, di condividere il suo o i suoi attuali o potenziali progetti espressivi ed autoesplorativi.
2) Il lavoro con i gravi insufficienti mentali: la funzione di "framing" del musicoterapeuta
La nostra esperienza nel campo della Musicoterapia è iniziata e si è svolta per parecchi anni con bambini gravi insufficienti mentali. Sono bambini in cui il danno cerebrale ha comportato handicap gravi o gravissimi sul piano della sensorialità o della motricità, non possiedono linguaggio verbale, spesso sono «chiusi» nei confronti del mondo esterno, incapaci di instaurare relazioni con adulti o con altri bambini se non su un piano in cui la ripetizione, la stereotipia o al contrario il disordine, la risposta casuale, l'aggressione ed il rifiuto improvviso, diventano modalità tipiche di rapporto.
Attualmente siamo convinti che anche con questi bambini non è impossibile entrare in sintonia, cercare un canale di comunicazione ed avviare così una relazione «felice», intendendo con questo termine un obiettivo sufficientemente preciso e verificabile: per relazione «felice» intendiamo una situazione di rapporto con il bambino in cui la comunicazione sia caratterizzata da fluidità, rispondenza, ordine, organizzazione piuttosto che da interruzioni, turbolenze, disordine, antagonismi e, conseguentemente, sia accompagnata e sorretta da emozioni positive (reazioni di avvicinamento, apertura, orientamento, sorriso ecc.) nel bambino e nell'adulto.
Attraverso l'analisi delle videoregistrazioni e dei protocolli di osservazione delle sedute, abbiamo appreso a calibrarci sempre meglio sui segnali inviati dai bambini e a rispondere adeguatamente ad essi dando l'avvio a quello che a tutti gli effetti appare lo svolgimento di un dialogo in cui le «parole» sono costituite da suoni, gesti, movimenti, scambio di oggetti, contatti corporei, segnali tattili ecc.
Dal punto di vista musicoterapeutico è interessante rilevare come nelle sedute più «riuscite», in cui cioè l'intesa raggiunta tra adulto e bambino appariva massima anche ad osservatori esterni, il repertorio di suoni, gesti, movimenti, ecc. veniva utilizzato dall'operatore e dal bambino secondo schemi logici, regole sintattiche, pattern ritmici sorprendentemente simili a quelli ricorrenti spontaneamente nella pratica di improvvisazione musicale a livello di base.
In sostanza, riteniamo che il musicoterapeuta verrebbe così a svolgere quella funzione di framing o organizzazione dei comportamenti espressivi spontanei del bambino che, in tal modo, grazie alia ripetizione del contesto (sistematicità nella conduzione della sedute), acquisterebbero prevedibilità e significato relazionale, originariamente di competenza della madre,funzione che in qualche modo si è interrotta a seguito delle risposte anomale, atipiche, bizzarre del bambino, strettamente connesse con il suo deficit cerebrale.
3) Concetti base: osservazione-ascolto-calibrazione
Con il tempo ci siamo resi conto, sempre più chiaramente, che quello che stavamo imparando nella comunicazione con bambini ritardati mentali, poteva essere fecondamente utilizzato anche in altri contesti
In particolare mi riferisco:
1) all'atteggiamento di osservazione-ascolto
2) all'atteggiamento di facilitazione
Con il primo concetto intendiamo la focalizzazione dell'attenzione sui segnali provenienti dall'altro avviati simultaneamente su differenti canali (visivo, uditivo, cinestesico) e nel loro rapporto di contingenza, relazione, causalita circolare con i nostri propri segnali.
Si rendono però necessarie alcune precisazioni: si potrebbe obiettare infatti che l'attenzione reciproca ai segnali, è tipica del processo che intercorre tra due comunicanti. Quale è allora la specificità dell'atteggiamento in parola? Credo che possiamo utilmente distinguere due livelli di specificità: un primo livello è consapevolmente utilizzato in pratiche psicoterapeutiche anche molto differenti tra loro. E di fatto i terapeuti, nel loro training, dedicano parte del tempo al suo affinamento (v. ad es. la terapia rogersiana o la programmazione neurolinguistica). C'è anche chi (10) ha condotto una ricerca sistematica sul come i terapeuti efficaci di differenti scuole, utilizzano gli aspetti non verbali della comunicazione e ne hanno tratto alcune conoscenze molto interessanti: per sempio, hanno scoperto che, al di là delle dichiarazioni teoriche, essi fanno molte cose in comune, tipo il rispecchiamento dei segnali del cliente o l'ancoraggio delle sue reazioni emotive. Tutto ciò presuppone che essi percepiscano e si facciano una buona rappresentazione dei segnali del cliente e delle loro variazioni in contingenza con i segnali emessi da loro stessi o alle variazioni nel contenuto della comunicazione. Essi si abituano così a rilevare le sfumature anche minime nel tono di voce, o le modificazioni più lievi nell'espressione del viso, nella postura, nella respirazione. Su questa linea si è scoperto per esempio che l'empatia (condividere l'emozione dell'altro, senza identificarsi) e contingente ad un rispecchiamento nella respirazione, nella postura, nella gestualità, nel tono e, più in generale, nel tempo-ritmo.
E allora possiamo facilitare l'empatia ed il rapporto con l'altro «mettendoci nei suoi panni», quindi in primo luogo adottando consapevolmente e volontariamente una respirazione e una postura analoga alla sua.
Tra l'altro, recenti ricerche sembrano dimostrare che una modificazione a livello periferico (del tono, postura, mimica) produce modificazioni in parllelo a livello centrale, cioè sull'attivazione delle aree cerebrali, con particolare riferimento alle strutture sottese, alla espressione e percezione delle emozioni. Certo è comprensibile che una visione tendenzialmente riduzionistica quale sembra ancora oggi dominante nella pratica medica e spesso ancora nella ricerca scientifica, possa rendere alquanto scettici di fronte alle considerazioni sopra svolte; d'altra parte esse sembrano comprovate da un numero crescente di ricerche nel settore che conducono a rivalutare l'enorme contributo alla conoscenza del corpo apportato dalle medicine orientali: nello Shiatzu ad esempio, è regola basilare che durante il trattamento, il terapeuta presti continua attenzione alla respirazione del paziente (calibrazione) e si adegui ad essa almeno in certe fasi della terapia; modificazioni nel tono muscolare, nella mimica, nella postura, nelle reazioni fisiologiche, sono di continuo oggetto di osservazione, elementi di diagnosi e di verifica dei risultati terapeutici.
Altra serie di obiezioni alle considerazioni precedenti possono provenire da parte di certi indirizzi psicoterapeutici che, mantenendo di fatto la concezione dicotomica corpo-mente, tendono a considerare i problemi intrapsichici, relazionali o psicosomatici, come conseguenza di conflitti interiorizzati, irrisolti, che ne costituirebbero la causa prima.
Secondo tali concezioni, un lavoro terapeutico che porti ad integrare direttamente sulla comunicazione e quindi sui segnali non verbali, sarebbe privo di senso in quanto tali segnali non sarebbero altro che la conseguenza diretta di certi processi che si svolgono a livello centrale, cioè nella mente.
Non è difficile scorgere come sotteso a tali argomentazioni stia ancora il principio di causalità lineare, preso in prestito dalla fisica classica di fine ottocento.
La concezione sistemica e la teoria della complessità, che stanno al centro dell'attuale dibattito epistemologico della scienza, fanno considerare superate, non più attuali, tutte le impostazioni che, in un modo o nell'altro, si fondano su un principio causa-effetto unidirezionale.
In termini pratici, è indiscutibile che i processi centrali influiscano su quelli periferici, com'è vero il contrario.
E allora ben si spiega come un'azione diretta sul corpo possa produrre effetti sulla mente che a loro volta, circolarmente, riverberano sul corpo in un processo dinamico-interattivo, o come l'azione su un membro di una famiglia produca conseguenze su tutta la famiglia come sistema.
Ritornando ai ragionamenti sopra svolti, possiamo dire allora che un primo livello di specificità
nell'attenzione ai segnali dell'altro, e riscontrabile in differenti pratiche psicoterapeutiche che la utilizzano sia come raccolta di informazioni sui processi in atto nel cliente, sia come modo consapevole di stabilire un rapporto con lui. Un secondo livello di specificità può essere riscontrato, a nostro avviso, nel punto di vista
musicoterapeutico e nella conseguente pratica.
Come si è accennato, il punto di vista musicoterapeutico si evidenzia per la rilevanza da esso attribuita alla distribuzione e concatenazione temporale degli eventi-comportamenti-comunicazione (sonori, motori, visivi, gestuali, posturali, ecc.) e alla dinamica energetica degli stessi (forza e intensità relative, aumento, diminuzione, rallentando, accelerando, variazioni, ecc.). Ciò significa che nella pratica clinica una parte di attenzione sarà riservata all'osservazione-ascolto-calibrazione dei segnali dell'altro per questi specifici aspetti, contribuendo così ad arricchire il quadro delle informazioni disponibili, con la possibilità di raffinare le proprie capacità di entrare in sintonia.
In questo senso la Musicoterapia può integrarsi fecondamente con differenti pratiche cliniche di cui può
costituire uno strumento ausiliario.
4) Concetti base: facilitazione e processo espressivo ed auto-esplorativo
Il secondo concetto, quelIo di facilitazione, è direttamente tributario delIa concezione rogersiana (11).
Detto in sintesi, si parte dal presupposto che ogni organismo, quindi ogni persona, abbia in sè tutte le risorse necessarie all'adattamento alI'ambiente, compresa la risoluzione dei propri problemi e conflitti interni.
Nessuno è in grado di aiutare direttamente una persona. E’ possibile solo contribuire a definire intorno a lei un contesto di opportunità in cui le risorse disponibili possano accedere ai problemi.
Secondo tale accezione il contesto di opportunità privilegiato, è costituito dalIa situazione di ascolto empatico. Ciò significa che l'ascoltatore-facilitatore ha il compito (spesso alquanto arduo!) di assumere temporaneamente e provvisoriamente il punto di vista dell' altro e conseguentemente sintonizzarsi sulla sua emozione, senza identificarsi, cioè mantenendo costantemente in atto il processo del "come se" io fossi l'altro (ma non la sono). In conseguenza di questa sintonizzazione (cognitivo-emotiva), le comunicazioni del facilitatore saranno percepite come 'azzeccate', 'centrate' perciò stesso facilitanti per il cliente, in quanto egli riceve un feedback che lo porta a riflettere su nuovi aspetti, sfacettature, angolazioni del problema.
Apparentemente può sembrare cosa banale, ma l'esperienza insegna che la capacità di centrarsi sull'altro, mettendo temporaneamente tra parentesi i propri punti di vista particolari, e una capacità alquanto complessa che richiede un lungo training di lavoro su se stessi. E di fatto le persone fanno tuttaltro tipo di cose mentre dialogano tra di loro, ovverossia l'ascolto dell'altro è quasi sempre alquanto parziale, mediato dai propri filtri o premesse epistemologiche irrigidite. Questo è tanto più vero quando una persona ha realmente bisogno di essere ascoltata e compresa in quanto portatrice di un problema. Intorno alla persona-problema, al bambino-problema, si alimenta tutto un sistema di relazioni che ne condividono e quindi rinforzano la patologia. E così, ad esempio, alle comunicazioni stereotipate o confusive di un bambino gravemente ritardato, fanno puntualmente da contrappunto comportamenti-comunicazione spesso altrettanti stereotipati o confusivi da parte degli adulti, genitori o educatori.(12) Nasce così, e ingrandisce sempre più, l'idea di irreversibilità-immodificabilità della situazione, accompagnata da sofferenza e sensa di inadeguatezza.
Nella nostra esperienza, la Musicoterapia non può produrre miracoli, ma può fornire un certo contributo alIo sblocco di situazioni incancrenite da anni.
Come si è detto, il concetto di facilitazione è centrale in musicoterapia, il che significa che il terapeuta per prima cosa, utilizzando le sue capacità di osservazione-ascolto-calibrazione, cercherà prima di comprendere e poi di condividere-partecipare il progetto espressivo dell'altro. (13)
In un primo tempo talvolta sembra eccessivo parlare di progetto espressivo di fronte, ad esempio, alle stereotipie, dondolamenti, iterazioni di un bambino ritardato. Sta di fatto che l'insieme di questi comportamenti sono tutto quello che il bambino produce ed invia verso l'esterno e sarebbe pertanto del tutto inutile cercare di interromperli e fargli fare qualche altra cosa.
In tal modo noi imporremmo un nostro progetto su di lui, partendo dal presupposto (condiviso dai più) che il personale progetto sia sicuramente migliore (per chi?).
Comprendere il progetto espressivo dell'altro dal punto di vista musicoterapico significa, viceversa, coglierne l'organizzazione temporale e la dinamica energetica e lentamente, progressivamente, farla propria attraverso lo strumento espressivo del proprio corpo. Significa quindi partecipare al progetto espressivo dilatandolo nello spazio e nel tempo, in modo da esplorarne le qualità gestaltiche, le ridondanze, quindi le regole implicite, le possibilità di variazione, la produzione di novità.
Il primo obiettivo a cui si mira in questo tipo di lavoro è l'attenzione reciproca, l'uno all'altro, e la condivisione di una esperienza (di comunicazione) felice o il meno infelice possibile. Nei casi di particolare gravità, forse questo è tutto ciò che si può ottenere: un'ora di benessere per il bambino! Può sembrare poca cosa, ma non lo è, se si pensa che il bisogno di comunicare e di comunicare felicemente, sembra essere un bisogno assolutamente primario nell'essere umano, per cui la sua soddisfazione, anche temporanea e parziale, deve essere vista come sollievo da uno stato permanente di sofferenza. In altri casi, l'instaurarsi di una relazione felice può essere l'inizio di cambiamenti anche durevoli e profondi nel comportamento in generale, come ampiamente documentato nella letteratura in argomento.
5) Il dialogo sonoro e i laboratori di formazione
Negli ultimi anni come si è accennato, abbiamo utilizzato questo modo di lavorare anche con ragazzi e adulti, in gruppi di terapia o formazione. I principi base rimangono in sostanza gli stessi: ascolto e calibrazione da una parte e facilitazione dall'altra; cambia però il modo in cui vengono utilizzati e soprattutto cambia, a seconda dei contesti e delle persone, il ruolo e l'importanza del linguaggio verbale nelle consegne e nelle verbalizzazioni successive.
Ad esempio, recentemente in alcuni laboratori di formazione abbiamo centrato l'attenzione suI dialogo sonoro.(14) Ci siamo chiesti, cioè, che cosa significa facilitare un'altra persona attraverso l'uso del suo no e degli strumenti musicali.
Per far questo siamo partiti da esperienze meno complesse, come quella del rispecchiamento della respirazione, della postura, della gestualità, dell'uso della voce. I partecipanti, a turno, svolgevano uno dei seguenti ruoli: facilitato, facilitatore, osservatore. Il facilitato aveva il compito di recuperare e rivivere suI presente una propria situazione emotiva, eventualmente problematica. Il facilitatore aveva il compito di rispecchiare, a seconda dei casi, la respirazione, la postura, ecc. L'osservatore doveva verificare e controllare il livello del rispecchiamento.
Finita l'esperienza, il facilitatore esprimeva a parole le sensazioni che aveva provato e le confrontava con quelle del facilitato.
Come ampiamente sperimentato in altra sede, anche in tale situazione spesso si verificava, con sorpresa dei partecipanti, una notevole sintonia suI piano emotivo, che rasentava talvolta la "lettura della mente". In alcuni casi cioè, persone tra loro sconosciute, attraverso il semplice rispecchiamento della respirazione, riuscivano a comunicare l'una all'altra vissuti emotivi o addirittura la struttura di fondo di certe situazioni che erano state rievocate dal facilitato.
Il passo successivo era costituito dall'avvio di esperienze di dialogo, sempre tra facilitato e facilitatore, alIa presenza di un osservatore, dialogo che dapprima utilizzava ancora soltanto la respirazione, la postura, la gestualità, la voce, e successivamente il suono prodotto con gli strumenti musicali, infine la parola.
In particolare nella fase dedicata specificamente al dialogo sonoro, abbiamo esplorato dapprima in piccoli gruppi e poi tutti insieme, come i concetti di accettazione, non giudizio, empatia - ampiamente sperimentati nella terapia rogersiana condotta suI piano verbale - si traducano in comportamenti riconoscibili suI piano sonoro musicale. E ancora una volta abbiamo potuto constatare come l'emozione del facilitato, la sua propensione ad aprirsi verso l'altro, il suo impegno espressivo ed autoesplorativo, siano strettamente collegati all'atteggiamento di fondo e ai comportamenti specifici non verbali-sonori del facilitatore.
Questo fenomeno si riscontra chiaramente anche in quello che abbiamo definito "responso sonoro" (in analogia al concetto di "responso empatico" nella terapia verbale rogersiana).
Nell'esperienza dl "responso sonoro", che si svolge a scopo unicamente didattico, non c'e un dialogo, ma solo una proposta sonora del facilitato e una risposta del facilitatore. Subito dopo si verbalizza quanto è accaduto, chiedendo dapprima al facilitatore se ritiene di aver colto e manifestato attraverso la sua risposta, tutti gli elementi più importanti contenuti nella proposta del facilitato. Si procede poi ai feedback del facilitato e degli osservatori.
Ebbene, come dicevamo, anche in questo tipo di esperienza, che in concreto può durare da pochi secondi a poco più di un minuto, la reazione emotiva del facilitato di fronte alla risposta del facilitatore, è in genere di tutta evidenza. Dirò di più: per quello che ho potuto sperimentare fino ad oggi, questo fenomeno si verifica addirittura quando il facilitatore prima dell'esperienza manifesta a parole, e riesce poi a realizzare, la sua intenzione: ad esempio, quella di rifiutare e squalificare la proposta dell'altro. Ebbene, anche in questo caso, nonostante che sia già preavvertito, il facilitato con tutta probabilità vivrà un'emozione negativa (rabbia, stizza, delusione ... ).
Quale insegnamento possiamo trarre globalmente dalle considerazioni sopra svolte?
Io penso che nel dialogo sonoro, come del resto in altre forme di dialogo non verbale, vengano attivate delle strutture molto profonde di ricezione-espressione delle emozioni, collegate certamente con i primi vissuti infantili. In altri termini una squalifica o una accettazione sul piano della dinamica temporale ed energetica, produce un'influenza molto potente ed immediata sull'andamento della relazione in atto e costituisce pertanto uno strumento alquanto efficace se sapientemente usato in terapia.
A questo punto si rendono necessarie alcune precisazioni. L'acquisizione delle competenze del tipo sopra indicato, per un certo verso ha ben poco a che fare con l'acquisizione di altri tipi di tecniche o abilità, quali ad esempio il suonare uno strumento o padroneggiare una lingua. Sono forse osservazioni scontate, ma è certo che la capacità di ascolto empatico dell'altro non può che passare attraverso un lavoro su se stessi, cioè sulle proprie mappe mentali, premesse epistemologiche o visione del mondo. (15) Io non ascolto, la direttivita, l'imposizione, l'invasione, l'allagamento ecc., chiaramente percepibili tanto nel dialogo verbale quanto nel dialogo sonoro, non possono considerarsi incidenti casuali. E di fatto l'esperienza insegna che all'inizio della formazione ciascun partecipante ha un proprio stile ricorrente di ascolto, frutto dell'adesione, inconsapevole, a certi tipi di premesse piuttosto che ad altre. E’ solamente a seguito della presa di coscienza di tali premesse personali e della disponibilità ad accedere ad altre più funzionali all'ascolto, che il comportamento del facilitatore potrà modificarsi abbastanza stabilmente. Rimane comunque necessario un periodico aggiustamento attraverso il confronto di o nel gruppo.
Quanto si è detto fin qui in riferimento alle pratiche terapeutiche e alla relativa formazione, può essere esteso, con le dovute cautele, al campo dell'educazione e della riabilitazione. E’ questo un campo ancora in gran parte da percorrere e, da parte nostra, in base all'esperienza, non abbiamo dubbi sulla fecondità di una operazione di questo tipo. In molti casi i problemi di apprendimento di bambini o ragazzi in difficoltà sono dovute ad interferenze emotive, che impediscono l'acquisizione delle corrette strategie di apprendimento o la loro utilizzazione. E allora diventa fondamentale l'atteggiamento dell'insegnante, del genitore, dell'educatore, del riabilitatore: una modifica nella relazione con il bambino può in taluni casi produrre effetti "miracolosi"; ma per l'insegnante, per l'educatore o il genitore, un cambiamento di atteggiamento non può passare, anche qui, che attraverso una modificazione della sua visione del mondo e delle sue premesse generali o particolari. A nostro avviso, il ruolo che può svolgere la Musicoterapia in tali situazioni è, come in altri, quello di aiutare a calibrarsi sull'altro e ad assumere un atteggiamento facilitante. E non è poca cosa.
Mauro Scardovelli
(Ricercatore psicologico musicoterapeuta)
Speciale a cura di:
Claudio Vangi
Elena Negri
Centro Progetto Armonia
Pubblicazione Gennaio 1987
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