Fattori predisponenti: il sesso maschile, l'età avanzata, la cirrosi e lo stato di portatore cronico di epatite B sono fattori
che predispongono all'insorgenza del tumore: ultimamente si è evidenziato il ruolo fondamentale e per molti versi ancora sconosciuto che l'infezione da epatite da virus C svolge nella genesi di questa neoplasia.
Diagnosi: dal punto di vista diagnostico, è ormai appurato che l’ecografia costituisce la metodica più semplice e sicura per il riconoscimento dell'epatocarcinoma anche se di piccole dimensioni: essa è infatti capace di diagnosticare il 90% delle lesioni inferiori ai 2cm, a differenza della TAC che è in grado di riconoscerne solo il 70%.
E' pertanto raccomandabile l'esecuzione sistematica di un ecografIa ogni sei mesi-un anno nei pazienti a rischio (cirrotici, portatori cronici di epatite B epatite C).
Terapia: tradizionalmente la terapia di elezione per il carcinoma epatocellulare è la terapia chirurgica, consistente nella rimozione del nodulo o, nel caso di noduli multipli, nella resezione del segmento epatico interessato; in alcuni casi accuratamente selezionati potrà essere indicato il trapianto dell'organo.
Ovviamente queste scelte terapeutiche sono gravate da un rischio di mortalità non indifferente, anche considerando il fatto che la lesione è a volte situata nella profondità dell'organo e quindi difficilmente raggiungibile; inoltre il fegato si presenta frequentemente in condizioni funzionali precarie e, di conseguenza, anche le condizioni generali del paziente sono spesso scadenti.
Negli ultimi anni, accanto alla tradizionale terapia chirurgica, si sono venute affiancando due nuove metodiche terapeutiche che, isolate o associate tra loro, si sono dimostrate altamente efficaci nel raggiungere l'obiettivo di distruggere elettivamente le cellule neoplastiche senza danneggiare il fegato sano circostante. Queste metodiche sono la chemioembolizzazione endoarteriosa e l'alcolizzazione ecoguidata.
La prima metodica viene eseguita collocando, sotto guida angiografica, un catetere all'interno del ramo arterioso che vascolarizza elettivamente il segmento epatico interessato dalla lesione.
Attraverso di esso viene quindi introdotto un medicamento che determina trombosi dei piccoli rami arteriosi determinando la necrosi, ossia la morte, delle cellule neoplastiche.
Tale tipo di trattamento, comunque abbastanza invasivo e non completamente scevro da rischi, avrebbe maggior successo nelle lesioni di grosse dimensioni e nelle lesioni plurifocali in cui un segmento epatico sia interessato da più noduli neoplastici.
Il secondo tipo di trattamento, decisamente meno invasivo, è attuabile ambulatoriamente con minimo disagio per il paziente: esso consiste nell'introduzione di alcool a 95° direttamente all’interno della lesione neoplastica.
Il nodulo viene dapprima visualizzato e centrato con l'ecografia: quindi viene introdotto attraverso la cute, all'interno del fegato, un ago sottile, di diametro inferiore al mm. Il tragitto di quest'ago è ben visualizzabile ecograficamente: quando la sua punta ha raggiunto e penetrato la lesione nella sede dovuta (al centro od alla periferia), si introduce attraverso di esso alcool etilico a 95° in misura variabile da 2 a 8 ml., a seconda delle dimensioni del nodulo. Dal momento che anche la diffusione dell'alcool all'interno della lesione è perfettamente dimostrabile con l'ecografia in tempo reale, si ha la certezza che l'etanolo rimanga nei limiti della neoplasia e che non vada a danneggiare il tessuto circostante.
Dato che l'ago, come si è detto è molto sottile ed il parenchima epatico praticamente privo di sensibilità, la sensazione dolorifica della puntura è minima, e legata per lo più al momento in cui l'ago trapassa la cute e, soprattutto, quando esso perfora la capsula epatica, dotata, questa si, di terminazioni nervose.
Il momento più fastidioso è legato alla introduzione dell'alcool: le sensazioni descritte dai pazienti vanno da un semplice senso di tensione e di calore ad un bruciore intenso. In media si tratta comunque di fastidi modesti, che svaniscono nel giro di pochi istanti: nella quasi totalità dei casi il paziente, al termine del trattamento, della durata di pochi minuti, è in grado di alzarsi da solo dal lettino e, dopo un breve periodo di stazionamento in una sala d'attesa (da 10 minuti a qualche ora), di tornare a casa.
La quantità di alcool da introdurre nella lesione è molto variabile: in media essa è compresa tra l e 8 ml. per ogni seduta, a seconda delle dimensioni del nodulo. Anche il numero delle sedute è variabile: si va dalle 2-3 sedute per un nodulo di 2 cm. alle 15 sedute per un nodulo di 5 cm.
Quando la lesione è molto voluminosa, e pertanto necessiterebbe di un numero eccessivo di sedute, si può effettuale l'alcolizzazione in sala operatoria. col paziente in anestesia generale. In tal caso vengono effettuate più punture, con introduzione di notevoli quantità di alcool in un'unica seduta (oltre 150 cc.). Tale tipo di trattamento, tuttavia. è più traumatico per il paziente e comporta un certo rischio di sanguinamento, per cui va effettuato solo in casi accuratamente selezionati.
Le complicanze descritte in letteratura su ormai migliaia di alcolizzazioni eseguite in tutto il mondo, sono veramente minime e consistono per lo più nel rischio di emorragie, peraltro sempre di modesta entità, che non hanno mai richiesto interventi terapeutici particolari.
La necrosi coagulativa indotta dall'alcool non è visualizzabile ecograficamente: pertanto, per verificare l'efficacia del trattamento è necessario eseguire una TAC a distanza di circa 1 mese. Se questo esame dimostra la presenza di aree di tessuto neoplastico ancora vitale, si interviene ulteriormente mirando la punta dell'ago su queste zone e introducendo ancora alcool sotto guida ecografica.
Per quanto riguarda i risultati, diremo che le percentuali di pazienti sopravvissuti a distanza di 3,4 e 5 anni dal trattamento sono simili a quelle dei pazienti sopravvissuti 3,4 e 5 anni dopo l'intervento chirurgico: l'efficacia terapeutica delle due metodiche è pertanto sovrapponibile; per contro è noto che l'intervento chirurgico comporta un rischio di mortalità non trascurabile.
Infatti, essendo l'epatocarcinoma una malattia cosiddetta "d'organo" in quanto insorgente su un fegato comunque malato, le probabilità che esso si riproduca a distanza di anni sono molto elevate indipendentemente dal trattamento intrapreso: anche questa considerazione, tutto sommato, spezza una lancia a favore dell'alcoolizzazione ecoguidata che, essendo come si è visto, del tutto scevra da rischi, può essere considerata a ragion veduta, in molti casi, la metodica di approccio terapeutico più indicata.
Pierluigi BOVERO
medico chirurgo
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