AIDS E ETICA

Giovedì 22 Giugno 2006 12:34
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Facendole poi rientrare tutte in una omnicomprensiva classificazione di puro e di impuro, non soltanto in rapporto a significati oggettivi, ma in rapporto a significati simbolici che diventeranno poi anche convenzionali. E tali simboli si rifanno ad un ordine e ad un costume preciso che è andato consolidandosi nel tempo attraverso il meccanismo di una ripetizione che deve esorcizzare la paura del significato catastrofico che qualunque cambiamento potrebbe comportare. Allo stesso modo la malattia viene a costituire un disordine che si introduce nell’ordine biologico. E alla paura l’uomo risponde con la segregazione, con la costituzione di una nuova categoria in cui poter includere questo elemento di disordine, una nuova categoria con la quale circoscrivere tale elemento e inglobarlo una nuova sequenza logica. Segregazione è quindi costituzione di una nuova categoria per mezzo della quale separare: separare ad esempio il povero dal ricco, il malato dal sano, l'organo malato dagli altri organi. L'ideale della scienza risponde proprio a questo criterio: ordinare il caos, fare tanti raggruppamenti concettuali (sistemi scientifici) da istituzionalizzare e da difendere poi strenuamente. E in particolare la scienza medica, pur avendo come oggetto un soggetto, cioè un'individualità psicobiologica molto difficile da costringere in schemi concettuali rigidi, non esita a rinunciare ad essere realmente interpretativa pur di non prescindere da questo suo intento classificatorio.
Anche la medicina, quindi, tende a realizzare un ideale di segregazione.
Ma più lo realizza, più perde il proprio potere autenticamente terapeutico per quanto pacifichi il medico ed appaghi il suo desiderio di un paziente perfettamente forgiato sulle sue categorie nosografiche. Egli intende infatti evitarsi l'angoscia esistenziale che gli deriverebbe dal destituire i propri mezzi, pur salvandone il senso strumentale, da ogni criterio di assolutezza.
L'A.I.D.S. rappresenta dunque una dura prova per l'essere umano attuale, ormai abituato ad una scienza medica piuttosto sicura di sè. E una malattia "nuova" che ci costringe ad un salto indietro nel passato, all'epoca delle epidemie, delle malattie incurabili contro cui nulla si poteva.
Alla paura, ancora una volta, si reagisce con il meccanismo della segregazione; ancora una volta si vuole separare il male dal bene, i comportamenti anormali da quelli normali, i gruppi sociali a rischio dagli altri.
E tutto questo naturalmente senza interrogarsi su quelle che possono essere le proprie responsabilità, le responsabilità delle maggioranze, classificabili come normali, che agiscono tale separazione senza chiedersi quanto questi atteggiamenti segregativi abbiano o meno una loro utilità concreta.
L'A.I.D.S., nel mondo occidentale, e quindi anche in Europa, si è diffuso innanzitutto tra gli omosessuali e i tossicodipendenti per via endovenosa. Si è quindi parlato di punizione divina per comportamenti e pratiche contro natura.
Ma se andiamo a vedere quali sono stati, ab imis, i fattori sociali che hanno determinato la diffusione deIl'A.I.D.S., ci accorgiamo di quanta responsabilità abbia l'organizzazione capitalistica della nostra società occidentale. E proprio tale organizzazione è altresì responsabile dell'allargarsi a macchia d'olio di quei comportamenti, cosiddetti a rischio, dell'omosessualità e dell'assunzione di droghe.
Non bisogna dimenticare che sono quasi sempre fattori sociali a determinare la comparsa o la scomparsa di un'epidemia.
Perciò se vogliamo parlare di castigo, questo castigo sarà rivolto al nostro sistema sociale e, quindi, non potrà che riguardare tutti noi.
L'A.I.D.S. si diffonde inizialmente, in termini di vera e propria pandemia, in Africa e, in particolare, in quei paesi dove l'occidentalizzazione, indiscriminata e selvaggia, è stata maggiore ed ha innestato traumaticamente il discorso economico di tipo occidentale nelle tradizioni autoctone, portando scompiglio nei valori e nell'organizzazione tribale che, non dimentichiamolo, comporta la poligamia.
Alla periferia delle città sorgono le bidonville e la prostituzione diventa l'unica possibilità di sopravvivenza per le donne che vengono ripudiate senza poter più contare, come in passato, sulla protezione della comunità, ormai disgregata e inesistente.
La prima conseguenza è stata l'enorme diffusione delle malattie veneree a livello di infezioni multiple, che ha portato uomini e donne alla sterilità.
Aggiungiamo a questo le emigrazioni per sfuggire alla siccità e i conseguenti incongrui ammassamenti e, infine, il mercato di armi moderne (non dimentichiamo che l'Italia produce e vende armi), che ha strumentalizzato ed alimentato le antiche rivalità tribali, e ha quindi causato spaventosi massacri, stupri, violenze di ogni genere.
Se ci spostiamo nei Caraibi, troviamo in parte anche qui una situazione simile a quella dell'Africa; cioè ci troviamo di fronte alle conseguenze dell'occidentalizzazione.
L'esplosione del turismo di massa ha provocato un cambiamento improvviso dell'economia prima di stampo contadino (coltivazione della canna da zucchero) che ha portato tra l'altro allo stravolgimento dei costumi alimentari e alla conseguente macroscopica esplosione di casi di diabete e di obesità.
Ad Haiti, centro di consumismo turistico (consumismo d'importazione dunque anche in questo caso), vediamo diffondersi i modelli di infezione tipici dell' Africa (legati cioè essenzialmente alla promiscuità eterosessuale), quale conseguenza dell'irruzione traumatica della cosiddetta "civiltà del benessere" che rompe l'ecosistema introducendo valori che non possono coesistere d'emblè con la cultura originaria.
Invece, nella Repubblica Dominicana, annoverabile tra i paesi sviluppati, vediamo l'importazione, tout court, di quelli che sono i problemi della cultura occidentale, ed in particolare degli Stati Uniti.
Negli Stati Uniti troviamo la matrice deIl'A.I.D.S. tipica delle aree occidentali e quindi anche europea e italiana.
I gruppi a rischio sono, negli Stati Uniti e nel Nord Europa, prevalentemente gli omosessuali che in questi paesi si caratterizzano per la grande promiscuità sessuale e per le pratiche sadomasochistiche.
Nelle zone mediterranee prevalgono invece i tossicodipendenti per via endovenosa con il loro bisogno di condivisione ritualistica dell' "esperienza" e dei "mezzi" attraverso i quali realizzarla.
Ma che cosa sono l'omosessualità (quando si fa promiscua e sadica) e la droga se non il "prodotto consumistico" della sofferenza generata dalla società dei consumi?
E la promiscuità eterosessuale (anche se per ora non troppo colpita daIl'A.I.D.S.) è poi davvero meno condannabile?
Cercando di cogliere una trama sociale, al di là delle singole storie personali (che comunque riconducono sempre ad una sofferenza familiare che la famiglia rifiuta di riconoscere in sè) troviamo l'intolleranza nei confronti del proprio bisogno, la fretta di soddisfarlo, l'assenza di progettualità, l'insofferenza per i cammini lenti e per la fatica in una società che ci ha abituato ai successi tanto facili quanto effimeri. Una società che ci ha abituato alle apparenze, che ci chiede continuamente di mistificare sostituendoci sotto il naso i nostri veri bisogni (bisogni di affettività, di creatività, di tempo e di spazio, di immagini in cui riconoscerci davvero) con quelli veicolati dagli spot pubblicitari, utili solo al potere economico per mantenere se stesso.
In questo contesto di impazienza, può diventare difficile sia il rapporto profondo, che nasce dalla costruttività convergente di due persone, sia il rapporto con l'altro sesso, cioè con l'altro diverso da noi, e quindi più faticoso, più difficile da comprendere e da raggiungere.
Del resto l'omosessualità non nasce certo in un contesto (sociale e familiare) dove l'eterosessualità è all'insegna dell'amore. Nasce, se mai, là dove l'eterosessualità è all'insegna dell'odio represso e dissimulato ma ugualmente imprintante.
Come l'omosessuale ha alle spalle una storia di omosessualità non esplicitata, così anche il drogato ha alle spalle una storia di "droga". Droga, infatti, non è solo l'eroina; droga è il televisore di fronte al quale piazzarsi ogni sera indiscriminatamente per sfuggire ad un dialogo che ci costringerebbe a prendere coscienza del nostro rifiuto per l'altro che ci vive accanto; droga è lo sport fruito con rabbia, investito di significati onnicomprensivi che non ha; droga sono le interminabili code in autostrada per week­end il cui unico senso è quello di imbrigliare in una routine coatta l'ansia di un'esistenza da cui l'amore è stato bandito o ridotto a pura funzione orgasmica perchè non venga messa in crisi l'organizzazione difensiva della personalità che vede nell'altro essenzialmente un nemico da tenere a distanza. Droga è il sottile velo di silenzio che si stende sul disagio quotidiano, sull'ostilità familiare. Droga è ogni gesto, ogni discorso formale, tutto ciò che non è sotteso da una realtà vitale, tutto ciò che ci serve per coprire il nostro fallimento il cui riconoscimento ci obbligherebbe a ricominciare tutto da capo osservando puntigliosamente la regola di non abdicare mai a noi stessi in cambio di un'approvazione sociale ormai troppo compromessa con le regole del potere economico, con le regole di un gioco ormai fine solo a se stesso. Possiamo stupirci se un figlio che ha respirato questa atmosfera di repressione cresce assuefatto e sceglie un annientamento della propria personalità privo di mistificazioni, che almeno non lascia adito ad equivoci?
L'omosessualità e la tossicodipendenza rappresentano solo la punta dell'iceberg della nostra sofferenza e delle nostre ansie più profonde.
Che cosa ci resta dunque da fare? Dobbiamo mettere in atto meccanismi paranoicali, ostracismi nei confronti dei negri, che in ultima analisi devono proprio a noi le loro disgrazie? Oppure nei confronti degli omosessuali e dei tossicodipendenti, che sono figli nostri, figli del nostro perbenismo falso, del nostro falso benessere, della nostra falsa sicurezza, della nostra eterosessualità formale?
Vogliamo attuare complesse procedure di segregazione, di separazione? Ma oltre a soddisfare la nostra primitiva ed infantile esigenza di separare il bene dal male, di non riconoscere il male che c'è in noi per non doverlo combattere innanzitutto dentro di noi, serve questa procedura di esclusione sul piano pratico?
In primo luogo vorrei ricordare che la situazione, anche in Italia, è molto meno sotto controllo di quanto si creda. Per quanto riguarda il problema delle trasfusioni si è messo in evidenza troppo tardi l'esistenza di una fase in cui l'infezione è latente e i risultati negativi. Di conseguenza il controllo non è assoluto. Inoltre, per quanto la concentrazione virale abbia un'importanza determinante per la trasmissione dell'infezione, e per quanto tale concentrazione sia alta solo nel sangue e nello sperma e per quanto l'HIV sia di scarsa resistenza ambientale, non si può però escludere totalmente la possibilità di contagio attraverso gli altri liquidi organici. Esiste indubbiamente un fattore di sottostima dell'entità del problema dovuto alle difficoltà diagnostiche soprattutto nei paesi del terzo mondo.
In Italia al l° giugno 1987 si diagnosticano 756 casi di A.I.D.S. conclamato ma si stimano 100.000 soggetti infetti. Il fatto che siano stati identificati nuovi virus collegati all'A.I.D.S., come l'HIV 2, apre nuove problematiche legate sia al controllo del sangue destinato alle trasfusioni, sia al riconoscimento dei soggetti infetti asintomatici. In conclusione possiamo ancora osservare che un'infezione si limita ai gruppi ad alto rischio solo nella sua fase iniziale: poi sconfinerà, si estenderà ineluttabilmente alle altre fasce sociali. Nel caso dell'A.I.D.S. il comportamento a rischio di contagio sarà sempre e sempre di più la promiscuità sessuale.
In un contesto di questo tipo può essere giusto ricorrere ad un atteggiamento di difesa attraverso una segregazione ritualistica?
Teniamo presente che in passato si era creduto di poter controllare il vaiolo sia attraverso la vaccinazione dei cittadini sia richiedendo il certificato di vaccinazione agli stranieri ma lasciando però insufficiente la rete vaccinica nelle zone endemiche del terzo mondo. Quando si è lavorato invece in questo senso si è potuto tranquillamente abbandonare l'obbligatorietà del vaccino, tra l'altro non scevro da una certa pericolosità, nei paesi civilizzati. Non solo, esistono malattie quali il tracoma oculare, il tifo esantematico, la peste, che non sono certo state debellate da interventi farmacologici o immunitari ma, se mai, dal cambiamento di alcune determinanti sociali (condizioni igieniche, alimentari, ecc.). Credo sia importante tenere presenti questi fattori. Se l' A.I.D.S. è innanzitutto, come dice qualcuno, un "flagello divino" che colpisce la promiscuità sessuale, non dobbiamo dimenticare che tale promiscuità, messa in relazione alle esigenze di individuazione personale e al livello culturale elevato e generalizzato proprio della nostra epoca, non rappresenta propriamente la "colpa" di qualcuno in particolare ma è se mai il prodotto della nostra civiltà dei consumi, della nostra organizzazione economica che vive parassitariamente sul nostro "bisogno" che essa stessa ci induce e sulla nostra intemperanza. Sarà solo riconoscendo i limiti della nostra organizzazione interiore, che non può non rispecchiare quella economico-sociale, che potremo sperare di mutare le condizioni sociali, attualmente così favorevoli alla diffusione della malattia.

Non si tratta di un invito alla repressione sessuale.
In realtà, psicologicamente parlando, è la promiscuità, il dongiovannismo, maschile o femminile che sia, ad essere frutto di repressione, della colpevolizzazione sessuale che non permette una adeguata fruizione del piacere sessuale e che induce alla ricerca di sempre nuovi partner. Spesso questa nostra società spaccia per integrazione, forza, successo, il frutto delle più infantili e psicologicamente inadeguate rivalse.
Che l'A.I.D.S. non sia dunque per noi spunto per una nuova caccia alle streghe ma, se mai, spunto di meditazione sui nostri tempi e sul nostro modo di realizzarci. Dobbiamo farci carico di questa sventura come dobbiamo farci interamente carico di fenomeni ormai di massa come quelli della droga o dell'omosessualità: questi fenomeni sono parte di noi, della nostra cultura. Dobbiamo imparare a riconoscere dentro di noi i geni di quel male che vediamo proiettato all'esterno e che sentiamo tanto distante ed estraneo. Infine, non dobbiamo lasciare che tutti quei mezzi di prevenzione che ci vengono offerti con tanta comprensione e con tanta prodigalità dalle multinazionali si trasformino per noi in un alibi che ci permetta ancora una volta di soprassedere, di evitare la verità.

Laura Grignola -psicoterapeuta
pubblicazione del1988